Per secoli, la distinzione fra arte e scienza si limitava a scuole di pensiero diverse, ma le due discipline scorrevano insieme nella mano dell’artigiano sotto forma di un’unica creazione.
L’individuo creativo della società contemporanea, ormai libero dalle assoggettazioni del mecenatismo o della chiesa, che vive in uno stato auspicabilmente privo di censure, soffre però di una divisione dello spirito differente e che spesso ignora. Dall’avvento della rivoluzione industriale, la scienza e la tecnologia sono state rapite dalla macchina capitalista dell’industria, e come una Persefone perennemente tenuta prigioniera, costrette alla sterile produzione di congegni bellici e pro-produttivisti.
La molla principale per l’inventiva e la generazione tecnica non è più la ricerca estetica, l'espressione di un pensiero proprio, non è più la creazione di un’opera, ma l’avanzamento tecnologico per una qualche industria con lo scopo di aumentare il profitto, diminuire i costi, tagliare i margini.
Le materie di natura tecnica vengono così esiliate lontano da qualsiasi spazio di studio e confronto frequentati dagli umanisti, gli studenti tenuti ostaggi di un congegno universitario che incoraggia la competizione e normalizza stili di vita e di studio spesso non compatibili con il benessere psicofisico.
Un profondo tunnel buio fatto di prospettive di malpagati tirocini in azienda, di collaborazioni con la difesa, di migliaia e migliaia di ore passate davanti ad uno schermo a cercare di risolvere problemi che non sentiremo mai nostri. Perché impiegare così tanti sforzi, alienati dalle nostre creazioni? Perché spendere il nostro ingegno in problemi così triviali, davanti ad un mondo ricco di problemi veri?
Se l’ingegnere venisse a conoscenza delle condizioni di vita dell’operaio imposte dall’industria per cui lavora, dei disastrosi effetti delle armi che progetta, dalle dipendenze provocate dagli algoritmi e dai software che produce, potrebbe perlomeno assumersi la responsabilità morale delle sue azioni.
In questo mondo dove sono gli ingegneri, gli scienziati i tecnici a progettare gli strumenti che utilizziamo quotidianamente, i prodotti che compriamo e gli ambienti in cui lavoriamo, com’è possibile che priviamo questa categoria delle nozioni di base per comprendere l’economia, la politica, l’empatia e l’espressione personale?
Cosa ce ne facciamo di eserciti di umanisti spesso esclusi da un mondo del lavoro dove vengono qualificate le loro competenze e di un mare di ingegneri incapaci di comporre un pensiero umano e di guardare alla società come tale e non come possibili acquirenti di un prodotto?